Un buco nell'acqua.

mercoledì 11 aprile 2012

#27: I demoni.



Cara Darja Pavlovna, 

Un tempo volevate venire a «farmi da infermiera» e vi faceste promettere che vi avrei mandata a chiamare quando ce ne fosse stato bisogno. Parto fra due giorni e non torno. Volete venire con me? 
Io l’anno scorso, come Herzen, ho preso la cittadinanza del cantone di Uri, e questo nessuno lo sa. Là ho già comprato una casetta. Ho ancora dodicimila rubli; vi andremo e vivremo là per sempre. Non voglio mai andar via. Il luogo spira tedio; è una gola stretta; le montagne opprimono la vista e il pensiero. È molto tetro. L’ho fatto perché la casetta era in vendita. Se non vi piacerà, la venderò e ne comprerò un’altra in un altro posto. Non sto bene, ma spero di liberarmi dalle allucinazioni con l’aria di lassù. Questo per il fisico; per il morale voi sapete tutto; ma è poi tutto? Vi ho raccontato molto della mia vita. Ma non tutto. Neppure a voi, tutto! A proposito, confermo che in coscienza sono colpevole della morte di mia moglie. Con voi non ci siamo più visti, dopo, e per questo ve lo confermo. Sono colpevole anche verso Lizaveta Nikolajevna; ma di questo sapete: avevate predetto quasi tutto. 
È meglio che non veniate. Il chiamarvi presso di me è da parte mia una bassezza tremenda. E perché dovreste seppellire la vostra vita con me? Mi siete cara, e nei miei momenti di dolore e di abbattimento stavo bene vicino a voi; con voi sola potevo parlare di me liberamente. Questo non vuol dir nulla. Vi siete destinata da voi a fare l’infermiera: è la vostra espressione; perché sacrificare tanto? Cercate di capire anche che se vi chiamo non ho pietà di voi, e se vi aspetto non vi stimo. E intanto vi chiamo e vi aspetto. Comunque, mi occorre una vostra risposta, perché bisogna partire molto presto. In tal caso partirò solo. Dall’Uri non spero nulla; vado, e basta. Non è che abbia scelto apposta un luogo tetro. Alla Russia non sono legato da nulla; tutto mi è estraneo qui come dappertutto. È vero che in Russia ho vissuto ancora meno volentieri che altrove; ma neppure in Russia ho potuto odiare nulla! Ho provato la mia forza dappertutto. Voi me lo consigliavate, «per conoscere me stesso». Nelle prove fatte per me e per mostrarla agli altri, come anche prima durante tutta la mia vita, essa è risultata illimitata. Sotto i vostri occhi sopportai uno schiaffo da vostro fratello; ho riconosciuto pubblicamente il mio matrimonio. Ma a che cosa applicare questa forza? Ecco quel che non ho mai visto e neppure ora vedo, malgrado le vostre approvazioni in Svizzera, alle quali credetti. 
Ancora, come sempre per il passato, posso desiderare di fare un’azione buona e ne provo piacere; insieme desidero anche il male, e ne provo pure piacere. Ma l’uno e l’altro sentimento sono, come anche prima, sempre troppo meschini: grandi non sono mai. I miei desideri sono troppo poco forti; non possono servire di guida. Su una trave si può attraversare un fiume, su una scheggia no. Questo perché non pensiate che parta per Uri con qualche speranza. Come prima, non accuso nessuno. Ho provato l’estrema depravazione, e vi ho esaurito le forze; ma la depravazione non mi piace e non la desideravo. Negli ultimi tempi mi avete seguito. Sapete che guardavo con rabbia perfino i nostri negatori, per invidia delle loro speranze? Ma voi temevate a torto: non potevo essere un loro compagno, perché non condividevo nulla. E neppure potevo esserlo per scherzo, per rabbia, e ciò non perché temessi il ridicolo – il ridicolo non può farmi paura – ma perché malgrado tutto ho delle abitudini di persona per bene e mi faceva schifo. Ma se avessi provato per loro più rabbia e più invidia, forse allora sarei andato con loro. Giudicate un po’ che vita facile ho fatto e quanto mi sono sbatacchiato di qua e di là!
Amica cara, creatura tenera e generosa, che io ho saputo intuire! Forse sognate di darmi tanto amore e di effondere su di me tanta bellezza dalla vostra anima bella che sperate con questo di pormi davanti finalmente una meta? No, è meglio che siate più cauta: il mio amore sarà meschino come sono io, e voi sarete infelice. Vostro fratello mi diceva che chi perde i legami con la propria terra perde anche i suoi dèi, cioè tutti i suoi scopi. Di tutto si può discutere all’infinito, ma da me è sgorgata solo negazione, senza alcuna generosità e senza alcuna forza. Ma no, neppure la negazione. Tutto è sempre meschino e fiacco. Kirillov, generoso, non ha potuto sopportare l’idea e... s’è ucciso; ma lo vedo, che era generoso, perché aveva perso la ragione. Io non son mai capace di perdere la ragione e non son mai capace di credere all’idea fino al punto di lui. Mai, mai sarò capace di tirarmi una rivolverata! So che dovrei uccidermi, spazzarmi via dalla faccia della terra come un insetto immondo; ma il suicidio mi fa paura, perché ho paura di mostrarmi magnanimo. So che sarà ancora un altro inganno: l’ultimo inganno in una fila interminabile d’inganni. A che pro ingannare se stessi per recitare la parte dell’uomo magnanimo? In me non potrà mai esserci indignazione e vergogna, quindi neanche disperazione. Perdonatemi se scrivo tanto. Me ne sono accorto ora, ma l’ho fatto senza accorgermene. E così, cento pagine sono poche e dieci righe bastano. Bastano anche dieci righe per chiamarvi «come l’infermiera». Io, da quando sono partito, abito alla sesta stazione, in casa dell’Ispettore. Avevamo fatto amicizia cinque anni fa, a Pietroburgo, gozzovigliando. Che io abiti lì non lo sa nessuno. Scrivete a nome suo. Accludo l’indirizzo. 

Nikolaj Stavrogin

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